La pioggia disegna arabeschi sulla strada sconnessa, scivola lenta tra le fenditure dell’asfalto, si mescola al fumo delle sigarette spente a metà. Nell’ombra, il lampione rotto disegna figure contorte sulle pareti scrostate. Sono qui, come sempre, ad aspettarti.
Ti ho baciato nei luoghi più oscuri, dove le luci si dissolvono in tremolii incerti e l’aria profuma di pioggia vecchia. Le strade sono vene vuote, serpeggiano nel buio senza promessa di alba. Noi due, ombre senza nome, sospesi tra il passo successivo e il passato che ci insegue, nascosti tra le crepe della notte.
Tu arrivi sempre tardi, quando il vento ha già raccolto i sussurri della città. Ti muovi come un refolo d’aria tra le macchine abbandonate, tra i muri graffiati dalla ruggine. Il tuo sorriso è un taglio nella notte, la tua voce un sussurro che spezza la quiete tesa.
«Sei sicuro che sia una buona idea?» mi chiedi.
Sorrido. Noi non abbiamo mai avuto buone idee.
Il coltello nella tasca pesa come un peccato antico. L’ho usato più volte di quante ne ricordi, ma mai con te accanto. Eppure sei qui, con il respiro corto e gli occhi accesi, figlia di un uomo che ci darebbe la caccia senza esitare.
Ti ho insegnato a piegarti senza spezzarti, a resistere come i fili d’erba nella tempesta. Hai imparato in fretta. Forse troppo.
Il sole è un nemico, lo sappiamo. Sotto la sua luce diventiamo visibili, reali. Così aspettiamo la notte, il nostro rifugio, il nostro mantello.
Aspetto con te, dove finiscono tutte le strade, dove il destino si nasconde tra le carcasse arrugginite e i ragni tessono il futuro nel silenzio. Aspetto, temperato come una matita pronta a scrivere un’altra vita, almeno per stanotte.
Perché domani, forse, non ci saremo più.
Ma stanotte, mentre le sirene ululano lontane, decidiamo di non pensarci. Ci rifugiamo in una stanza di motel malconcio, con le tende che odorano di polvere e nicotina. Ti spogli con lentezza, lasciando che il neon tremolante accarezzi le cicatrici sul tuo corpo, storie che non hai mai raccontato e che non oso chiederti.
Facciamo l’amore come se fosse l’ultima volta, e forse lo è davvero. Ogni carezza è una promessa infranta, ogni bacio un addio sospeso. Poi restiamo in silenzio, sdraiati sul materasso sfondato, ascoltando la notte che si muove fuori dalla finestra.
Le tue dita tracciano linee immaginarie sulla mia pelle, come a voler lasciare un segno indelebile prima che tutto svanisca. “Vorrei che il tempo si fermasse qui”, sussurri, e io annuisco, perché mentire non avrebbe senso.
Mi stringi forte, come se potessi impedire al mondo di portarmi via, come se bastasse la forza delle nostre mani intrecciate per fermare il destino. Il tuo respiro si mescola al mio, caldo, esitante.
Fuori, la pioggia riprende a cadere, scivolando lungo i vetri sporchi. Il neon del motel lampeggia, illuminando per un attimo i nostri corpi esausti. Mi perdo nei tuoi occhi, neri come la notte che ci avvolge.
Le lenzuola sanno di umidità, di troppe storie dimenticate tra queste pareti sottili. Ci avvolgiamo l’uno nell’altro, cercando un calore che non appartiene a nessun luogo se non ai nostri corpi. I tuoi capelli sfiorano il mio viso mentre ti avvicini ancora, le labbra che esplorano la mia pelle con la stessa urgenza con cui il tempo ci sfugge dalle mani.
Chiudo gli occhi mentre il tuo respiro si fa più lento, la tua testa affonda nella curva del mio collo. Ti ascolto addormentarti, contando i battiti del tuo cuore come se potessi imprimerli nella memoria, come se potessi portarli con me quando questa notte finirà.
«Domani cosa faremo?» mi chiedi sottovoce.
Non rispondo. Domani non esiste. C’è solo questa notte, questo respiro condiviso, questa attesa senza fine.
E poi arriva l’alba, crudele e inesorabile. Ti svegli prima di me, ti vesti in silenzio, lasciando che il primo bagliore del giorno disegni ombre spezzate sulle tue spalle nude. Quando apro gli occhi, sei già sulla porta, il viso nascosto nell’ombra
.
«Devo andare», dici piano, e la tua voce è un filo sottile che minaccia di spezzarsi.
Annuisco. Non provo a fermarti. Noi due siamo sempre stati questo: attese e addii, notti rubate e giorni fuggiti.
La porta si chiude con un clic leggero. Resto lì, nel letto disfatto, con l’eco del tuo respiro ancora sulla pelle, il profumo della tua pelle intrappolato nelle lenzuola. Il giorno è arrivato, e con esso la certezza che questa notte non tornerà mai più.
Mi alzo, infilo i jeans spiegazzati, accendo una sigaretta. Fuori, la strada è già sveglia, indifferente al vuoto che hai lasciato. Ti immagino camminare via, senza voltarti.
So che non ci rivedremo.
Eppure, so anche che continuerò ad aspettarti.
Questo racconto è liberamente ispirato alla canzone “La figlia del tenente” di Davide Van De Sfroos. Un sentito grazie all’amico Nathaniel Jethro Stokes per avermela fatta conoscere, avermi tradotto le parti in dialetto comasco e aver collaborato con me alla scrittura