Faceva caldo. Molto caldo. Doveva essere l’estate più calda da cent’anni. Anche a oltre mille metri si sentiva, la cappa dell’afa. La nostra, una famiglia di proprietari terrieri, in quel luogo era stata ricca e influente, tanto tempo fa. Negli anni i possedimenti si erano ridotti, ma l’audacia imprenditoriale del nonno prima e di papà poi ci avevano consentito di conservare la villa, che anzi – per come la ricordavo da bambina – era stata ristrutturata, e abbellita.
Non ci tornavo da qualche anno: la montagna d’estate va bene per i ragazzini e per gli anziani, categorie a cui non appartenevo. Ma a ventisette anni quello mi era sembrato il posto giusto per dimenticare gli strascichi di una serie di delusioni che avevano fatto amaro il mio inverno.
Per questo motivo, all’inizio di luglio avevo fatto le valigie ed ero salita tra i montanari dell’appennino tosco-emiliano per godermi un periodo di vacanza.
L’apertura della villa era sempre un evento in paese; segnava l’inizio della stagione e sembrava che senza le chiacchiere, vere o presunte, sulla nostra famiglia l’estate non fosse arrivata. Un paio di settimane prima erano salite dalla città le due governanti che avrebbero gestito la casa durante l’estate e ancora prima i due giardinieri, padre e figlio, erano andati a ripulire dalle erbacce i vialetti, potare le piante e riaprire la piscina, suscitando la pruriginosa curiosità dei paesani.
Poi arrivai io. Cercai di non farmi notare quando attraversai il paese per raggiungere la nostra casa, ma ero sicura di non essere passata inosservata. In paese si seppe subito che la rossa e ribelle erede dei Bernardi era tornata.
Passai i primi giorni a non far niente, tra il letto, la piscina e la sdraio. Avevo detto a tutte le persone che frequentavo in città che non sarei stata rintracciabile per un po’, potendo tenere in questo modo il cellulare spento. Dormivo, prendevo il sole e leggevo, il modo migliore per recuperare dopo il terribile inverno che avevo alle spalle.
Il mio ritiro durò all’incirca una settimana, poi, un po’ perché ero tornata in forma, un po’ perché mi iniziavo ad annoiare, iniziai a fare qualche giro in paese. Non c’era molto da fare, ma almeno potevo stare un po’ tra la gente. Adottavo sempre un abbigliamento poco vistoso, ma nessuno riesce a ignorare una ragazza di un metro e settantacinque, con i capelli rosso fuoco, nemmeno in uno speduto paese dell’Appennino.
La mia posizione sociale di figlia della famiglia più ricca del posto e l’aria da snob che mi davo quando volevo distanziare le persone, tenevano alla larga la maggior parte di quelli che avrebbero voluto tentare un approccio.
L’unico con cui non avevo speranze era il maresciallo dei Carabinieri. Dirigeva la locale stazione dell’Arma da molto tempo ed era in buoni rapporti con la mia famiglia, per questo non riuscivo mai a togliermelo di dosso. Più vicino ai sessanta che ai cinquanta, aveva i capelli brizzolati, due grossi baffi e una pancia prominente. Non era propriamente quello che avrei definito un uomo attraente. Sembrava che volesse essere gentile e disponibile con me, ma si trattava di un evidente tentativo di approccio, anche se piuttosto goffo. Avrebbe dovuto capire che la sua età e il suo aspetto non gli lasciavano speranze, ma non demordeva. Mi muovevo per il paese facendo attenzione, ma lui faceva sempre in modo di incontrarmi. Credo che sia comunque difficile sfuggire al maresciallo dei Carabinieri in un paese di duemila anime; i miei tentativi di di schivarlo fallivano ogni volta ed ero costretta a sorbirmi i suoi approcci, non maleducati, ma nemmeno graditi.
Il mio periodo di vacanza coincise con l’arrivo della festa del patrono e con essa salirono anche i miei genitori. Come ci succedeva spesso, io e mio padre avemmo un pesante alterco. Non siamo mai andati d’accordo, purtroppo. L’affetto reciproco non è mai bastato per superare le nostre divergenze.
Scesi in cantina infuriata, presi una bottiglia di vino e me ne andai nella mia stanza. Ero furibonda, piansi, presi a calci tutto quello che trovai e infine mi attaccai alla bottiglia e la vuotai tutta in pochi minuti. Poi presi erba, tabacco e cartine e mi feci una canna. La testa girava e caddi sul letto in uno stato a metà tra il sonno e il coma; per fortuna con l’ultimo barlime di lucidità mi ricordai di mettermi di lato per evitare di soffocare nel caso avessi vomitato. Mi svegliai di soprassalto quasi tre ore dopo, con la bocca ancora impastata dall’alcool. Cercai di riprendere il controllo della situazione, ma un conato di vomito mi fece capire che dovevo fare le cose con calma. Avevo voglia di andarmene da quel posto, ma la stanza girava attorno a me come una giostra. Mi trascinai in bagno dove vomitai e mi infilai sotto la doccia gelata, per provare a riprendermi.
Nonostante tutto però le mie condizioni rimanevano pessime. La testa mi pulsava e lo stomaco mi dava fastidio. Indossai una gonna un po’ larga, che mi arrivava appena sopra al ginocchio, una maglia sbracciata e un paio di sandali. Poi presi l’auto e scesi in paese, senza sapere che cosa avrei fatto, la sola cosa che volevo era uscire da quella casa. Il mio rifugio degli ultimi giorni si era trasformato in un luogo di tortura. I miei non mi videro allontanarmi, con la mia andatura un po’ barcollante, e fortunatamente avevo evitato i tacchi. Raggiunsi il paese e mi ricordai della festa del patrono, uno degli eventi più importanti dell’estate.
Dovetti lasciare l’auto distante e incamminarmi a piedi, tanta era la gente che riempiva le strade, ma una camminata mi avrebbe fatto solo bene.
Portamento e aspetto fisico, così diversi da quello delle sempliciotte del paese, mi facevano notare anche se non volevo. In una località di montagna di pochi abitanti una ragazza come me era una presenza inusuale e divenni oggetto delle attenzioni di buona parte degli uomini presenti, dai più giovani ai più grandi. Sentivo i loro sguardi su di me, alcuni lascivi, altri semplicemente curiosi. Arrivai nella piazza, dove un’orchestra di diversi elementi stava preparando gli strumenti, mentre il corpo bandistico di un paese vicino si esibiva nell’attesa.
Andai a prendermi un paio di tigelle [1] senza nulla dentro, per provare ad asciugare lo stomaco e mi sedetti su una panchina al limitare della piazza. Accavallai le gambe non particolarmente nascoste dalla gonna e mi accorsi delle attenzioni di parecchi dei maschi presenti, ma la cosa non mi toccava. In un attimo arrivò, come sempre, il maresciallo a sedersi vicino a me. Aveva perennemente quel fare ossequioso, quasi viscido. L’alcool e il nervosismo causato dal litigio con mio padre, mi avevano fatto abbassare un po’ le difese e, quasi senza accorgermene, lo lasciai fare. Lui cercava di essere elegante, senza risultati; in realtà stava sbavando al solo pensiero che, forse, gli avrei concesso le mie attenzioni. Non avevo nessuna intenzione di farlo, ma lo lasciai illudere.
La banda terminò la sua esibizione e poco dopo salì sul palco l’orchestra. «Venga andiamo più vicino!» gli dissi e lui si sistemò la divisa d’ordinanza e mi seguì. Ci sedemmo in prima fila, mentre le prime coppie iniziavano le danze. La sera era scesa e la piazza, trasformata in pista da ballo, era illuminata solo dalle luci del palco. Nella sua esibizione l’orchestra accelerò la musica, passando via via a pezzi più movimentati. Le coppie volteggiavano veloci quasi volessero mettere in mostra la loro bravura.
Arrivò Roberto, un ragazzo che conoscevo fin dai tempi dell’adolescenza e che mi invitò per un ballo. Da ragazzini avevamo frequentato la stessa scuola di danza ed ero certa che non avesse nessun secondo fine, tanto che era lì con moglie e figli, che conoscevo anch’io. Tutto ciò che voleva era ballare con una vecchia amica. Accettai l’invito senza pensarci e iniziammo il ballo. Ci muovevamo con eleganza sulla pista, mentre la gonna si alzava lasciando intravedere le mie lunghe gambe. Roberto era un bravissimo ballerino e anch’io non me la cavavo male. Verso la fine del secondo pezzo ballato con lui vidi quell’uomo. Era in un angolo della piazza, avrà avuto una quarantina d’anni, decisamente non bello e con un’aria a metà strada tra il delinquente e il contadino. Il suo pessimo abbigliamento, jeans e canotta metteva però in evidenza un fisico scolpito, sicuramente dal lavoro non dalla palestra. Durante il ballo con Roberto lo guardai più volte e notai che non mi aveva staccato gli occhi di dosso per tutto il tempo che ero stata in pista. Il secondo pezzo finì, accompagnai il mio occasionale cavaliere per salutare anche la sua famiglia e tornai a sedere vicino al maresciallo, che stava in uno stato di eccitazione sempre maggiore, probabilmente a causa della visione delle mie gambe lasciate scoperte dalla gonna durante la danza.
Il tizio in canottiera si avvicinò e mi disse: «Mi concede questo ballo?»
La proposta mi lasciò un attimo spiazzata e subito il maresciallo intervenne, dicendo: «Enrico, è già qua con me!».
L’attrito tra i due si percepiva in maniera evidente. C’erano di sicuro dei trascorsi non proprio amichevoli tra quei due.
«Via signor maresciallo è solo un ballo!» disse lui piantando i suoi occhi scurissimi nei miei. Ma il carabiniere non ebbe nemmeno il tempo di replicare perché Enrico mi prese per la mano e mi trascinò in pista, senza nemmeno darmi la possibilità di obiettare. «È solo un ballo» pensai, mentre andavamo in pista. Dopo un attimo eravamo vicini, lui cercava il mio sguardo, io cercavo di evitarlo.
«Le mani al loro posto eh!» dissi mentre il suo braccio cingeva la mia vita per iniziare a ballare.
Odorava di sudore e di vino in contrasto con il mio profumo di bagnoschiuma e crema per il corpo. Ballammo. Lui era muscoloso e mi stringeva con decisione nella danza. Si muoveva con una grazia che non mi sarei aspettata da quel tipo di uomo. Io continuavo a mantenere le distanze e a sfuggire il suo sguardo. Non sapevo perché mi trovassi lì a ballare con quel tizio così lontano dal tipo di ragazzi che frequentavo, ma lasciai che la musica ci portasse. Il pezzo finì, ne iniziò subito un altro, e non ebbi nemmeno la possibilità di staccarmi, perché lui riparti subito. Mi aveva imbrogliata e costretta ad un altro giro di giostra, stavolta con un brano molto veloce ma nello stesso tempo molto sensuale. Cercai di concentrarmi nella danza, quasi volessi ignorare la persona con cui stavo ballando, eppure continuavo a non sentirmi a posto. Capii che il motivo del mio disagio era lui, ma non perché volessi uscire da quella situazione, al contrario il tutto mi stava provocando un sottile piacere. Il lato ribelle di me stava prendedo il sopravvento. Danzare con quell’uomo rozzo, lì in mezzo alla pista, sotto gli occhi di tutta la gente del paese, del maresciallo e probabilmente anche di mio padre mi stava eccitando parecchio.
I suoi forti odori mi colpivano le narici, un misto di fastidio e attrazione che nemmeno io riuscivo a spiegarmi. E ancora evitavo il suo sguardo.
«Ma dov’è stata tutti questi anni? Quassù non siamo abituati a certe donne» disse lui.
Non risposi, quasi che quel piccolo cedimento potesse trascinarmi nel baratro. Il pezzo ad un certo punto aveva una pausa e in quel momento per forza ci trovammo vicini, i visi uno di fronte all’altro. Non riuscii a evitarlo, i miei occhi incrociarono i suoi, in un istante che sembrò durare un secolo.
Poi tutto in un attimo cambiò. Una valanga di emozioni invase la mia mente, ogni difesa cadde. Strinsi più forte il suo corpo con le braccia e lui fece lo stesso. La danza divenne erotica, passionale. I nostri corpi si avvicinarono, l’odore di sudore di lui si mescolò con il mio profumo che si spargeva per la pista, mentre la gonna si alzava, mostrando a tutti le mie gambe e anche qualcosa di più. I nostri corpi si incrociarono, sentivo il suo calore e la stretta delle sue braccia muscolose. Ora anche i nostri visi erano vicini nel ballo, le labbra quasi si sfioravano nel piccolo spazio che le separava, anch’io sudavo per lo sforzo della danza e per la tensione erotica di quel momento lungo, lunghissimo, infinito.
La musica finì. Ancora un incrocio di sguardi. La ragazza di città tra le braccia forti del contadino di montagna. Le labbra erano pericolosamente vicine, finché non si toccarono. Fu come quando un lampo squarcia il cielo durante un temporale. Il mondo scomparve mentre ci scambiavamo un lungo e appassionato bacio carico di voluttà ed erotismo. Persi ogni controllo, afferrai la sua testa con le mani, mentre lui mi stringeva sempre più forte. Ormai i nostri odori, e i nostri sudori erano fusi in un unico profumo. Sapeva di sesso e sensualità.
Mi prese per mano e mi portò via, di corsa lungo i vicoli del paese. Feci appena in tempo a vedere il maresciallo seduto e a fargli un saluto con la mano mentre ci allontanavamo verso la nostra notte di follia.
[1] La crescenta o crescentina, conosciuta anche come tigella, è un tipo di pane caratteristico dell’Appennino Modenese. È un prodotto agroalimentare tradizionale da mangiare farcito con affettati o formaggi o con un battuto di lardo e aromi e Parmigiano grattugiato. A volte viene consumata al posto del pane.
Questo racconto è liberamente ispirato alla canzone “La balera” di Davide Van De Sfroos